In chiusura accenno al fatto che l’uso dei segni ortografici qui adottati , anche se essi si riscontrano disordinati nella letteratura siciliana sin dal secolo XIII, non è mai stato prima d’ora codificato e che il siciliano degli atti della Real Cancelleria nella Sicilia della seconda metà del XIV e di tutto il XV secolo sono scritti in un volgare che prende già le distanze dal latino ma che non è ancora lingua.
Caposaldi di questa nostra koinè sono, tra gli altri, Cielo d’Alcamo, il quale già nel XIII secolo non mette la “h” davanti a talune voci del verbo avere, l’abate Angelo Senisio (ma anche Michele da Piazza e Matteo Sclafani) che nella prima metà del XIV secolo usa la “k” al posto della “c dura”, lo Scobar, il quale privilegia “ch” al posto di “cchi” e “x” al posto di “sci” nella prima metà del XVI secolo mentre, nella seconda metà dello stesso secolo, Antonio Veneziano adotta il “gh” al posto del “ggh”. Nel XVIII secolo Giovanni Meli si serve della “j” per esprimere “gi” e, nel secolo XX, Nino Martoglio preferisce “a”, “i”, “u”, al posto di “la”, “li”, “lu”, Stefano D’Arrigo “c” per “ci” (es: “muccusu” e non “mucciusu”), Salvatore Camilleri trascrive “a li” con “ê” e “a lu” con “ô”, e Santi Correnti, quasi chiudendo un cerchio iniziato oltre sette secoli prima, ritiene inutile la “h” nelle voci del verbo avere.
Un lungo percorso, quello della lingua siciliana, che per ragioni storiche non ha potuto maturarsi con la necessaria continuità ma che, forse proprio per questo, offre oggi, a chi studia le sue origini e le sue peripezie, la possibilità di scoprirne primigeneità e vitalità, tanto da poter parlare di ben sette gruppi di dialetti della lingua siciliana: messinese, catanese-siracusano, sud-orientale, agrigentino, trapanese, palermitano, nisseno-ennese; e qui mi piace riportare l’elegia che ne fa Angelo Alberti quando scrive “N’menzu â zagara naxu, / u ventu di tri mari l’anakau, / Munjbeddu u foku ci pruiu, / Pruserpina ku amuri l’addattau, / Meli, gran kustureri, u vistiu / e a dignità di lingua u purtau, / e c’eni ku pensa ka makari Diu / p’essiri chu askutatu u parrau” (scritto con l’alfabeto italiano, da me traslitterato).