È noto che l’espansione musulmana verso oriente consentì alle popolazioni arabe di venire a contatto con la civiltà greco-classica e greco-bizantina e che in quell’occasione vennero trovati e custoditi testi di filosofi e umanisti ellenici da tempo ritenuti persi. È pure noto che dopo la riconquista della Sicilia alla cristianità da parte degli Altavilla, sia i Ruggero che i Guglielmo furono tolleranti con gli sconfitti e tennero a corte intellettuali, maestranze e costumi orientali.
Fu con i sovrani Ruggero II e Guglielmo I che iniziarono a tradursi in lingua latina, e ad ampiamente diffondersi, i testi degli antichi autori greci. Si aprì così una finestra sulla cultura universale che non poteva non coinvolgere la società meno erudita del Regno la quale parlava un linguaggio molto articolato parecchio influenzato dalla corruzione del latino medioevale ma, che risentiva anche di un lessico di derivazione greco-arabo con elementi ebraici e nord-europei.
I primi passi del siciliano si collocano intorno all’anno 1000 per via di un entroterra culturale che aveva alimentato tale tendenza creativa. Consistono, perlopiù, in espressioni e vocaboli siciliani a caratteri greci (codici religiosi) o in parole siciliane usate da ebrei scriventi in arabo (atti notarili). Ma è con l’arrivo dei trovadori al tempo dei normanni che il siciliano si arricchisce di elementi provenzali al punto da svilupparsi un volgare letterario siciliano, che troverà il suo habitat alla Magna Curia dello svevo Federico II, dove si svilupperà una vera e propria cultura romanza in lingua siciliana (qualche secolo dopo, questa nuova lingua influenzerà un linguaggio marinaio, il sabir, ma anche i dialetti dell’Italia meridionale e la lingua maltese).
La declamata sovranità del Regno di Sicilia portò gli ultimi Re Altavilla e quelli dei casati Hohenstaufen e Aragonese a incoraggiare una lingua siciliana che non fosse solamente parlata ma anche scritta e, quindi, letteraria. Tracce della nuova lingua si trovano sin dal 1153 (diplomi ufficiali e atti testamentari), e, ancora, nel 1170 (menestrelli e verseggiatori di corte) e nel 1186 (didascalie nelle forme dei portali delle chiese); è, però, nella prima metà del ‘200 il suo periodo di massima visibilità in questo senso con la “Scuola poetica siciliana” che si formò al seguito di Federico II dove Iacopo da Lentini inventò un componimento metrico composto da quattordici endecasillabi, divisi in quattro strofe, che chiamò “sonetto” e che venne utilizzato da Dante come da Shakespeare, da Petrarca come da Platen, da Alfieri, Foscolo e Carducci come da Belli, Porta e Trilussa oltre che da Ronsard e da mille altri in tutti i tempi.
Purtroppo, salvo qualche frammento del Pugliese costudito in un Codice al Vaticano, non ci sono pervenuti i testi originali delle poesie e delle canzoni di quel tempo essendo, quelli noti, scadentissime traslitterazioni in lingua italiana arcaica che non meritano qui essere riportate ai fini del presente studio. Mi limito, quindi, a citare gli autori più noti, da Cielo D’Alcamo (il suo “Contrasto amoroso” è del 1230) a lacopo da Lentini (“Io m’aggio posto in core…”), da Pier della Vigna (“Però ch’Amore…”) a Filippo da Messina (“Oi Siri Deo…”), a Stefano Protonotaro (“Pir meu cori alligrari…”), a Ruggerone palermitano, a Ranieri da Palermo, a Odo (“O ria ventura e fera…”) e Guido delle Colonne, a Mazzeo Riccio, a Jacopo, Monaldo e Rinaldo d’Aquino, a Ruggero d’Amici, Notaro, Percivalle, Compagnetto, allo stesso Federico II (“Misura, provedenza e meritanza…”) e ai suoi figli prediletti Enzo (“Tempo vene che sale a chi discende…”) e Manfredi, ma ancora a Giacomino Pugliese (“Donna, di Voi mi lamento…”) e a Jacopo Mostacci (“Amor, ben vejo che mi fa tenere…”) quasi tutti intorno al 1250.
Questo avveniva prima che in Italia nascesse il “dolce stil nuovo” e ad un tale livello di conoscenza da far si che chiunque scrivesse in quel plurinazionale Paese veniva detto “siciliano”, pur senza esserlo di nascita (De Sanctis), e da fare scrivere nel 1305 a Dante nel suo “De vulgari eloquentia” I,12 che quella siciliana era “la prima lingua degna di essere parlata a livello nazionale”, e a Petrarca in “Trionfo d’amore” IV,35, e nel prologo di “Epistolae familiares” che a Palermo era nata la letteratura italiana. L’orgoglio di essere monarca di uno stato sovrano portò i Re del casato aragonese di Sicilia a dotarsi di una cancelleria di scriventi in siciliano nella stessa capitale iberica. Federico IV parlava in questa lingua ai suoi interlocutori di rango anche stranieri nelle riunioni ufficiali azokì liauditori ajanu plui klaru intellectu di nostra intencioni.
Riporto, ora, stralci di alcuni dei più antichi documenti scritti in lingua siciliana cominciando da tre atti del XIII secolo.
– Lettera di Pietro d’Aragona a Carlo d’Angiò (1268) dove si dice:
“…sacciati, chi voi zò nun faciti, li nostri…”
– Lettera dei Baroni siciliani a Pietro d’Aragona (1282) dove si dice:
“…ricumandamuni a la Vostra Signuria, e a la signura Vostra Mugleri…”
– Relazione di Atanasio di Catania (1287) dove si dice:
“la Vinuta di lu Re Japicu…”
A seguire riporto parti di nove atti del XIV secolo.
– Da una lettera del notaio Rinaldo Pitigna alla Regina Eleonora d’Aragona del 29/1/1330:
“…ka multi kastelli et villi riturnaru a la fidili parti nostra…”
– Dalle “Memorie” di Angelo Sinisio (1347):
“…chi dicinu havirilu intisu di li soi…”
– Da una disposizione di Manfredi Chiaromonte del 24 luglio 1349:
“…Ki nullu chitadinu di Palermu ne habitaturi di Thermini …ad usu di kissa chitati…”
– Dalla “Cronaca” di Michele da Piazza:
“…vicaria di tuctu lu regnu, …, e viva casa Charamunti…”
– Da un supplica del sindaco di Palermo Lambertu Riczu a Federico Chiaromonte in data febbraio 1351:
“…di furmentu bonu novu salmi MC a killa rasuni et prezu ki parrà ad illu…”
– Da una lettera di Parisius Vinki a Enrico Chiaromonte tra le “Carte Reali” di re Pietro IV (1359):
“…ki ipsi nun divianu fari altru comu killu ki fussi di so unuri ki tropu esti raxunivili cosa ki vui ni dijate essiri signuri et non nixunu altru…”
– Da una lettera del giudice Bartolomeo Altavilla all’abate Angelo Senisio:
“…fussi cum quilli ligisti ki dicinu lu cuntrariu forte faceremeos contentos…”
– Da un lettera della regina Bianca ai Baroni siciliani (1377):
“…vi raccumandamu esprissamenti chi incuntarenti diàti…”
– Da una supplica dei cittadini di Termini a re Martino del 1394:
“…la ditta Muntagna Euràko est di la universitati et havia multi…”
Quindi, del XV secolo, sette pezzi significativi.
– Da “Politica e società” di V.D’Alessandro sulla Sicilia medioevale:
“…Ki juva a nui…in li nostri justicij…ja sia zoki li dicti nobili …killu ki la tenia…”
“…ka non foru restituiti…a killi di Palermu…”
“…item ka duj judichi…azoki li Vostri …jamay…”
“…tra killu ki rumpissi la pachi; e cussi jurastivu Vuj et …rendira zo ki teni…”
– Dall’Archivio storico per la Sicilia orientale:
“…oy per jardini…terra acrixuta de genti veninu ad pagare li gabelli dohane et maxime…”
– Dalla Giurisdizione annonaria municipale nei secolo XIII e XIV in “Archivio storico siciliano”:
“…senza nixunu subsidiu…ki dassi oy…senza nixuna altra junta sub pena predicta…lu jornu…”
– Dai Capitoli inediti delle città demaniali (1428):
“…et loki…di lu regnu predictu…ki vi placza fari provisioni, ki nullu pocza intrari vinu ki vegna di fora di lu regnu inperoki…”
– Dall’Atto di delimitazione dei confini tra la terra di Caccamo e la città di Termini del 30 ottobre 1477:
“…incipiendo da lo Roccazzo dellu fratasso ed xindi di li roccazzi roccazzi, ed xindi allu valluni ki xindi…et xindi jusu…casazza di Jacobo…a lo limito di la vigna di To Xiluffo…”
– Da una letttera del vicario La Rosa dell’Abbazia di Agira all’arciprete della stessa città (dicembre 1494):
“…abbatis prefati monasterii comu appari per loru privilegii antiquissimi…”
– Dalle credenziali del re Alfonso il Magnanimo per il monaco Giuliano Maiali al Bey di Tunisi (1497):
“…licentia et facultati ki pri nostra parti…”
Ancora quattro atti cito per il XVI secolo.
– Dalla memoria di Geronimo De Russello, alias Pichuni, della parocchia “Matrice” di Roccella Valdemone del 13/4/1540:
“…item li xuruni in due peczi…juxta formam…”
– Da una disposizione del vicario generale Guglielmo Anzalone di Agira del giugno 1553:
“…e di quelli devi cuntu alli casceri…”
– Da un rescritto del vicario Paolo Parisio al parrocco di S. Pietro di Agira nel giugno 1590:
“…cum consignare ac consignavisse…”
– Da una lettera di Antonino de Marturana al vescovo di Catania del 1537:
“…volirisi agregari a la dicta parochia primo ki altri parochi divinu participari…”
Cognomi, toponimi e letteratura
A questo punto può essere utile riportare alcuni cognomi e vocaboli rilevabili in una raccolta sul quartiere “della Kalsa” di Palermo (a ridosso dell’altro detto “della Judecca”) in uno studio sull’anno 1480 fatto da A. Di Pasquale.
Cognomi: Perrunachi; Jnnakari, Lukera, Skiruni; Coxa, Lixandru, Xikili, Xillia, Xisu, Xoza; Aglata, Vintimigla, Truglu; Janbirtuni, Justu.
Vocaboli: curtiglu, figlu, franki, majuri, mugleri.
A proposito di cognomi, traggo da “Notizia” in Occhio di capra” di Leonardo Sciascia, 1990:
“…c’è il mio nome…(e il nome, fino alla metà del’ 800, nelle anagrafi parrocchiali, non gratuitamente, ma per esigenza fonetica, veniva così trascritto: Xaxa)…”
Altri esempi di scrittura siciliana sono riscontrabili nel Dizionario “Vallilium” di Nicolò Valla (1514) – Faxa, Pixi, Kalende, Xarra, Sicca = seppia, Xunda, Rachoppu – e nel Vocabolario siciliano-latino di Lucio Cristoforo Scobar (1517) – Pixalasnu, Farfaglari = tartagliare, Discanuxiri, Glanda, Choviri, Chovu, Chudiri, Achuppari.
Una curiosità significativa da riportare è che nell’elenco telefonico di Palermo sono ancora ai nostri giorni riscontrabili cognomi testimoni della scrittura propria della Sicilia: Karrà, Kateano, Xatalano, Xerra, Xamino, Xibilia, Xirachi, Xlombardo, Matraxia, Craxi, Xumè, Ximemi, Matraxia, Jannì, Jenna, Jesù.
Infine, a testimonianza della sopravvivenza, tra i toponimi ancora in uso nella cartografia riguardante la Sicilia di termini di antica e endogena provenienza, ricordo:
– Nnturmizzi a Piana degli Albanesi;
– per la “k”: Kassaru, Kemonia, Kalsa e Sakura a Palermo; Kaggio a Monreale; monte Eurako (oggi S. Calogero) a Termini Imerese; Kamma, Karuscia e Rekale a Pantelleria; Kelbi e Kinisia a Trapani; la torre del Maskaro in contrada S. Maria presso Mazara del Vallo; Karsa a S. Mauro Castelverde; Capo Skino a Gioiosa Marea; Kalura a Cefalù; Kaukana e Kamarina a Santa Croce Camerina; Kartibubbo a Campobello di Mazara; Mokarta a Salemi; monte Kalfa a Roccafiorita; Makari a San Vito lo Capo; Kaggera a Calatafimi; Kaggi per Gaggi;
– per la “j”: Raccuja e Letojanni a Messina; Jeranni a S. Angelo di Brolo; Joppolo ad Agrigento; Junghi a Scicli; Raja a Enna; Judeca a Butera; San Giuseppe Jato nel palermitano; Janni Mauru a Modica; Juncetto a Catania;
– per la “x”: S. Angelo Muxaro, masseria Muxarello e Giancaxio ad Agrigento; Ramuxara a Campobello di Mazara; Ruxura e Muxotto a Caccamo; Xirbi e Xiboli a Caltanisetta; Xireni a Castellana Sicula; Xiggiari a Paceco; Xitta a Trapani; l’Uxibeni di Palermo; monte Xarria (oggi Pomo) a Roccapalumba; Xifonio ad Augusta; Xirumi a Lentini;
– ruga di Lu Richuni (oggi via del Protonotaro) a Palermo; Ochula a Grammichele.
Ma, oltre gli esempi appena riportati, molte sono le opere e i documenti di quel tempo arrivati sino a noi a prova delle origini della lingua siciliana. Per quanto riguarda le più antiche pubblicazioni in questa lingua riferisco che della produzione di quei primi secoli di vita della letteratura siciliana, oltre le opere storico-letterarie di Bartolomeo da Neocastro, Tomasso Caloiro e Niccolò Speciale autore, quest’ultimo, della prima storia del popolo siciliano (Historia sicula – 1282-1337), si trovano:
Lu ribellamentu di Sicilia di Anonimo messinese (XIII sec.); Lu libru di lu Dialugu de Sanctu Gregoriu di Johanni Campulu di Messina del 1337-1343; le Lamintazioni in Quendam profetia del 1355; il Declarus ossia vocabolario latino spiegato in siciliano redatto dal catanese Angelo Senisio nel 1368; La Sposizioni di lu Vangelu di la passioni secondo Matteo (1373); il Libru di lu transitu et vita di misseri Santu Jeronimu (1380); Storia di Eneas di Angilu di Capua; Lu viaggiu di re Luduvicu di Catania a Agira di Michele da Piazza (scritta dopo il 1354, anno in cui avvenne l’evento), autore anche di una Cronaca (fine XIV sec.) nella quale si parla della spaventosa epidemia di peste che sconvolse l’Europa nella prima metà del XIV secolo partendo da Messina; il Chronicon e la Conquesta di Sichilia per manu di lu conti Rogeri di Normandia di Simuni da Lentini, coevo di quel Atanasio d’Aci, frate benedettino autore di una relazione in siciliano riguardante la venuta di re Giacomo a Catania (prima metà del XV sec.); Giovanni Morello cantava in terza rima la morte d’Enrico d’Aragona (XV sec.); l’Anonymi Historia Sicula vulgari dialecto conscripta…(XV sec.); la Resurrectio Christi, testo teatrale scritto nel 1422 dal siracusano Marco De Grandi; La vita e il martirio di S. Agata di Giovanni Dies, stampato a Palermo nel 1499; il vocabolario siculo-latino Vallilium dell’agrigentino Nicolò Valla (1514); il vocabolario siculo-spagnolo-latino scritto a Siracusa nel 1517 ma edito a Venezia tre anni dopo da Lucio Cristofaro Scobar, un canonico spagnolo già allievo di Elio Antonio de Nebrissa; Ystoria di Sanctu Amaturi; il Libru di li viti et di li virtudi; La mascalcia (suggerimenti di veterinaria equina); Apothemi di Mariano Bonincontro del XVI sec.; l’Osservantii di la lingua siciliana et canzoni in lo proprio idioma in quattro tomi, compendio di grammatica e canzoni popolari uscite a Messina nel 1543 ad opera del siracusano Claudio Maria Arezzo; il Breve ritratto di sentenze cristiane e documenti utili ad ognuno, scritti in versi distici e in “lingua vernacolare” da Luigi Ciellio e stampate a Palermo nel 1582.
Inoltre ricordo che tra ‘400 e ‘500, numerosi sono i poeti siciliani che assieme al latino adoperano il volgare e l’idioma siciliano. Tra essi segnalo Pietro Gravina, Giano Vitale, Angiolo Barbaglitta, Carlo Rocco, Francesco Reitano, i catanesi Veraldo di Rocco e Bartolomeo d’Asmundo e soprattutto Matteo Caldo che, nel suo Le vite del Salvatore e l’alma sua madre, utilizza una lingua frutto della commistione di termini latini, italiani e siciliani, forgiando così una sorta di “maccheronico” precedendo in ciò l’esperienza del più noto Falengo alias Martin Coccaio. Ancora del cinquecento segnalo l’operato letterario di Antonio Veneziano (1543-1593), autore monrealese del canzoniere Celia e della raccolta di proverbi siciliani in ottava rima, editi postumi a Palermo nel 1628 e nel 1680, stimatissimo dal Cervantes, aggiungendo che nella sua “Epistola dedicatoria della Celia” indirizzata “A l’illustri signuri don Francescu Lo Campu” (riportata dai manoscritti XIB6 (Biblioteca Centrale della Regione Siciliana) e 2QqD67, 2QqC34, 2QqD68, 2QqC21, 5QqE195,2 (Biblioteca Comunale di Palermo)), si legge:
“…forsi lu munnu aspittiria autri primizi di l’ingegnu miu; ma in quali lingua putia meghiu fari principiu, ch’in chidda, chi primu non sulamenti ‘nparai, ma sucai cu lu latti?…”
“…Staria friscu, Omeru chi fu Grecu, e scrissi grecu, Oraziu, chi fu d’unni si parrava latinu, e scrissi latinu, lu Petrarca, chi fu Tuscanu, e scrissi tuscanu, s’a ma chi sù Sicilianu non mi convenissi comporri Sicilianu…”.
Questo concetto è stato ripreso dal Cervantes nel secondo “Chisciotte” (1615), al capitolo XVI:
“…il grande Omero non scrisse in latino, perché era greco, e anche Virgilio non scrisse in greco, perché era latino. In conclusione, tutti i poeti antichi scrissero nella lingua che succhiarono col latte, e non andarono a cercare quelle straniere per esprimere l’altezza dei loro concetti…”(dialogo platonico che intreccia con il Cavaliere del Verde Gabbano).
Sempre del ‘500 risulta essere l’anonimo cantore di La barunissa di Carini, struggente ballata di carattere popolare sviluppatasi attorno alla cruenta storia di amore e morte coinvolgenti esponenti della feudalità isolana del tempo, epopea che tanta presa ancora oggi conserva nella memoria della gente di Sicilia. Nello stesso secolo un manoscritto di padre Silvio Risico del 1597 dal titolo “Proverbi siciliani e latini” è alle origini della paremiografia siciliana.
Il ‘600 e il ‘700 vedono già affermato l’uso di scrivere il siciliano utilizzando l’alfabeto della lingua italiana, per cui la produzione letteraria di quel secolo è connotata da questa tendenza.
Del ‘600 rimangono le Muse Siciliane, ricca raccolta di canzoni siciliane edita a Palermo nel 1645 ad opera di Giuseppe Galeani, e la testimonianza di un napoletano, Giambattista Basile, autore in siciliano di Lo cunto di li cunti overo lo trattenemiento de’ peccirille (1634-1636); Luigi la Farina, Silvio Riccio e il cassinense Paolo Catania di Monreale curano, tra il 1652 ed il 1663, delle antologie sui proverbi e le canzoni siciliane; intanto, nella prima meta del XVII sec., dopo che Giovanni Ventimiglia e Antonio Mirelli e Mora affermano che la lingua italiana deriverebbe direttamente dal siciliano, vengono date alle stampe due vocabolari, uno anonimo, l’altro opera del Tarantola. Eguale fortuna viene riservata alle opere redatte dal gesuita palermitano Placido Spadafora e da Vincenzo Auria, che proprio in quegli anni curano due diversi vocabolari sulla lingua siciliana, rimasti purtroppo solo in manoscritto preso la Biblioteca Comunale di Palermo e il Collegio Massimo dei Gesuiti palermitani.
Il ‘700 si apre con l’edizione del Vocabulariu Sicilianu di Onofrio Malatesta, religioso appartenente all’ordine dei Minimi di S. Francesco di Paola e socio di La Crusca di la Trinacria, sorta di circolo letterario molto in voga a quel tempo. Nella prefazione di quest’opera, uscita a Palermo nel 1706, l‘autore sottolinea la sua intenzione di raccogliere non sulamenti li paroli ma ancora li frasi e modi di lu parlari di chistu regnu, badando anche a porre attenzione a come esse si trasportanu alla moda taliana ed allu dioma latinu. Seguiranno le fatiche di Giambattista Caruso, che nel 1726 fece ristampare a Palermo le Rime degli Accademici Accesi, circolo letterario fondato all’epoca del viceré Filiberto di Savoia (secondo decennio del Seicento) “ che fur de ‘primi a rimetter in campo il vernacolo verseggiare”, e i dizionari siculo-latino-italiani di Michele del Bono (1750 circa), il Compendio della dottrina cristiana di G. Ventimiglia (1761) e il Vocabolario siciliano etimologico italiano e latino di Michele Pasqualino tra il 1785 e il 1795.
Questo secolo chiude con un evento importante per la storia linguistica dell’isola, infatti, a rafforzare la già avviata tendenza culturale dell’utilizzazione dell’alfabeto italiano, nel 1790 il viceré di Sicilia principe di Caramanico impose con atto ufficiale l’uso della lingua italiana nel Regno di Sicilia.
Ormai il destino della scrittura propria della lingua siciliana era segnato: condannato dalla politica non poteva più evolversi ma solo imbastardirsi anche nel parlato. La sua durata nel tempo dipendeva ormai dai funzionari pubblici e dalla scolarizzazione del popolo. A nulla varranno i rigurgiti nazionalisti post-annessione di fine ‘800 né quelli post-secondo conflitto mondiale di metà ‘900.
Gli anni a cavallo tra il ‘700 e ‘800, registrano intanto la presenza di Giovanni Meli, il quale guidò, in qualità di presidente, l’Accademia Siciliana fondata da Francesco Paolo Di Blasi (morirà giustiziato nel 1795) nel 1790, in ideale continuità con quella dei Pescatori orotei (1747-1750) di cui era socio il padre Vincenzo Di Blasi. Il Meli, la cui opera venne tradotta in tedesco da Goethe ed in italiano dal Foscolo, paragonato in vita al grande Teocrito e proclamato Principe dell’Arcadia, ammirato nel 1793 dal Rezzonico e, più tardi, persino dal Carducci (1899), dettò in siciliano le regole letterarie cui l’accademia (sopravvissutagli per circa due anni) doveva attenersi in ogni sua promozione.
Dal ‘700 al ‘900 moltissimi botanici, dizionaristi, grammatici, autori letterari e teatrali, etimologi, poeti (tra cui Vincenzo Bondice, Agostino Gallo e Carmelo Piola) scrissero in siciliano, indagandone contenuto e tracciandone nuove vie (anche Innocenzo Fulci nel 1836 in Glottopedia italo-sicula), mentre molti stranieri, durante e dopo il loro soggiorno nell’isola, ne studiarono linguaggio e strutture lessicali, cosa che fece anche il tedesco Christian F. Wentrup, con la sua monografia sul dialetto siciliano del 1859, il tedesco-danese Friedrich Münter, che nel suo “Viaggio in Sicilia” del 1789 ebbe cura di riportare in siciliano una cinquantina di vocaboli e di citare alcune poesie, e Gerhard Rohlfs, con i suoi “Dizionario storico dei cognomi nella Sicilia orientale” e “Soprannomi siciliani” (1922-1982).
Dizionari e vocabolari vennero curati, nel ‘800, da Vincenzo Mortillaro – 1853, Giuseppe Biundi – 1856, S. Binnoli – 1864, Antonino Traina – 1868, Sebastiano Macaluso Storaci – 1875 e, nel ‘900, da Nicotra E. D’Urso – 1922, G. Girgenti – 1970, Salvatore Giarrizzo – 1989, ecc. oltre a quello manoscritto tra il 1878 e il 1886 da Domenico Mangiameli. Nel 1867, a cura di L. Lizio-Bruno, veniva curata una raccolta di canti scelti del popolo siciliano illustrati.
In siciliano furono tradotti classici greci e latini tra cui l’Iliade da Daniele Ventre e da Domenico Canalella – che pure tradusse l’Odissea – e , in ottave, Ovidio e Virgilio dai fratelli Sortino di Modica e l’Eneide dal messinese Angelo da Capua (XIV sec.), da Tommaso Aversa – 1654, ma anche, nel’900, dal bagherese Girgenti, da Salvatore Puglisi e da Giuseppe Cavallaro, e poi Mimnermo, Archiloco, Ipponatte, Alceo, Saffo, Anacreonte, Alcmane, Stesicoro, Ibico e Catullo; sorte riservata anche alla Divina Commedia (Filippo Guastella, Domenico Canalella) mentre D’Annunzio volle, dopo aver assistito a Milano ad una rappresentazione del dramma La zolfara dell’agiro Giuseppe Giusti Sinopoli, che il polizzese Borgese gli traducesse in siciliano la Figlia di lorio, ed in siciliano, riferisce D’Agostino, si faceva il catechismo, almeno sino al concordato del 1929.
Il siciliano di Angelo Musco conquistò i palcoscenici di tutto il mondo, così come il teatro di Martoglio e Pirandello; interamente in siciliano è anche un racconto di Giovanni Verga. Pure Alessio Di Giovanni scrisse dei romanzi in siciliano, e nel suo nome, nel secondo dopoguerra, nacque la Nouva Scuola Poetica Siciliana nelle cui file si annoverano Saitta, Pietro Tamburello, Paolo Messina, Ignazio Buttitta, Antonino Cremona, Aldo Orienti, Stefania Montalbano, Miano Conti, Carmelo Molino.
I contemporanei Stefano D’Arrigo in Horcynus orca, Andrea Camilleri in La stagione della caccia, Pino Amatiello in Dragunara, Vincenzo Consolo in L’olivo e l’olivastro, Leonardo Sciascia in Occhio di capra, amano mischiare nel testo italiano termini siciliani. Molti sono ancora i poeti come i compianti VannʽAntò, Calì, Giardina e Buttitta che continuarono a fare grande la lingua siciliana. Lo stesso Modugno, pugliese, scrisse in siciliano le sue più belle canzoni.
Il nuovo millennio registra il Vocabolario “Italiano-Siciliano” di Salvatore Camilleri, gli studi lessicografici di F.M. Provitina e il dizionario etimologico “Il Siciliano” di Rosario Sciangola e quello riproposto di Vincenzo Nicotra.
Protezione legislativa
A cominciare dagli anni ’70 del ‘900 qualcosa si è mosso nella politica per la salvaguardia di questo “bene culturale”. La Regione Siciliana, infatti, ha promulgato una serie di leggi, timide all’inizio, poi sempre più sostanziali, tese a incoraggiare la conoscenza e la diffusione dei dialetti siciliani attraverso iniziative scolastiche e associazioni.
Ritengo opportuno qui elencarle, anche se in forma sintetica, subito evidenziando come però esse siano state dettate da obiettivi immediati piuttosto che dalla vera volontà di ridare al popolo siciliano la sua lingua.
• Legge Regionale 12 maggio 1975, n.23 – Interventi per la diffusione della cultura musicale nella Regione siciliana.
Con questa legge si promuove la concessione di contributi a sostegno di associazioni operanti in Sicilia in campo musicale da almeno cinque anni e senza scopo di lucro.
• Legge Regionale 16 agosto 1975, n.66 – Provvedimento per la promozione culturale e l’educazione permanente.
Con questa legge, solo in parte attuata, venne avviato, tra le altre cose, il recupero e il potenziamento delle strutture già destinate allo sviluppo sociale e culturale dei cittadini e vennero incoraggiate e sostenute le attività di carattere culturale, artistico e scientifico organizzate a cura di comuni, accademie, enti, istituzioni e associazioni.
• Legge Regionale 7 maggio – 1977, n.33 – Interventi per la valorizzazione dell’arte drammatica con particolare riguardo al repertorio siciliano.
Con questa legge si promuove la concessione di contributi a sostegno di enti e organizzazioni siciliani operanti in campo teatrale anche al di fuori del territorio regionale.
• Legge Regionale 5 marzo 1979, n.16 – Norme per la promozione culturale e l’educazione permanente.
Con questa legge, solo in parte attuata, viene istituito presso l’Assessorato dei beni culturali ed ambientali e della pubblica istruzione il comitato tecnico-consultativo per la programmazione degli interventi previsti dalle precedenti leggi per la promozione culturale e l’educazione permanente.
All’art. 6 si parla, per la prima volta specificatamente, di uno stanziamento a favore di comuni, organizzazioni ed enti vari siciliani per la diffusione e conoscenza, anche al di fuori del territorio regionale, “del teatro dialettale siciliano e di autori siciliani del teatro d’arte e delle tradizioni popolari e folcloristiche e del teatro dell’opera dei pupi”.
• Legge Regionale 6 maggio 1981, n.85 – Provvedimenti intesi a favorire lo studio del dialetto siciliano e delle lingue delle minoranze etniche nelle scuole dell’isola e norme di carattere finanziario.
È ancora poco ma, questa legge rappresenta una svolta epocale per l’avvio di una politica nuova tesa a valorizzare la cultura locale in quanto, già all’art. 1, testualmente afferma “…al fine di promuovere lo studio e la conoscenza del dialetto siciliano da parte degli studenti e dei cittadini con attività integrative volte all’introduzione dello studio del dialetto ed all’approfondimento dei fatti linguistici, storici, culturali ad esso connessi”. E avanti con questo tono.
Bisogna però aspettare la Circolare n. 8 del 4 luglio 1997, con la quale vengono regolamentate le attività culturali, prima di potere avviare a largo raggio valide iniziative a cura di scuole, accademie, enti, istituzioni e associazioni a fronte di finanziamenti ad hoc tramite contributi mirati previa approvazione dei progetti e verifica dei risultati.
Vastissima la partecipazione (ripetutasi sino a che la legge è stata finanziata), di gran lunga superiore alle aspettative e, di conseguenza, ai fondi destinati sull’apposito capitolo di bilancio.
Sull’onda lunga di tale importante iniziativa politico-amministrativa, qualche anno dopo la Regione Siciliana promuoveva una bella campagna pubblicitaria componendo simbioticamente delle intelligenti frasi siculo-inglesi di speranza e incoraggiamento nell’ambito della propaganda “Europa” curata dallo Stato:
“Talìa and think” (Guarda e rifletti);
“Addumamu your hope” (Accendiamo le vostre speranze);
“Travaghiamu for you” (lavoriamo per te).
Queste furono le frasi riportate sui manifesti alle fermate degli autobus di città dei grossi centri della Sicilia nel 2000.
Poi, più nulla di ufficiale, sino al 31 maggio 2011, data in cui la politica ha prodotto la legge n. 9 sotto il titolo “Norme sulla promozione, valorizzazione ed insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano nelle scuole”; nel novembre dello stesso anno, è stata anche approntata la bozza del decreto per l’attuazione degli interventi didattici. E dire che già sin dal 27 giugno 2000 lo Stato italiano, pur non adempiendo alla sua ratifica, aveva firmato la adesione alla “Carta europea delle lingue regionali o minoritarie” (approvata dalla Unione europea il 25 giugno 1992 ed entrata in vigore l’1 marzo 1998) nei cui parametri dell’art. 1 rientra anche l’idioma siciliano, riconosciuto tale in sede O.N.U. dall’UNESCO la cui Organizzazione Internazionale per le Standardizzazioni (ISO) lo dotò del proprio codice di tre lettere (SCN) riservato alle lingue e la identificò come ISO639-2 e ISO639-3.
Lo stesso Centro Ethnologie di Dallas statuì che l’idioma siciliano “è differente dall’italiano quanto basta per essere considerato lingua a sè, tra l’altro molto utilizzata tanto da potersi dire che i siciliani sono dei parlanti bilingue”.